Vedi Napoli e poi… Trap

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Vedi Napoli e poi… Trap

 

La canzone Napoletana rappresenta un crogiolo di cultura, tradizione, contaminazioni ed espressioni molteplici, un racconta storie di sentimenti e profumi, di stati d’animo e di storia, racchiusi in un turbinio che cristallizza l’arte al mito, incastonandola nella cornice secolare del tempo.

Così Napoli nel tempo si è voluta raccontare tra le righe e le pagine dei suoi poeti, autori, musicisti e triccheballacche: le sirene, il mare, ‘o sole, ‘a pizza, ‘e manduline, sono diventati l’export della vecchia Nea Polis nel mondo; mentre la canzone si trasforma nel medium più veloce per arrivare direttamente nelle case, nelle piazze e nei luoghi intimi e agglomeranti, raccontando la storia di un popolo unico con unicità incontrovertibile.

Più dolce del francese, più suadente dello spagnolo, più forte del tedesco, più intimo del giapponese, più internazionale dell’inglese, la lingua napoletana deve alla sua produzione musicale la sua divulgazione e il suo successo mondiale.

Anni di crisi non ne hanno sopito la forza e la bellezza, così oggi la sua reale evoluzione è rappresentata da un nuovo stilema artistico, che si affianca a quello neomelodico dei vari D’Angelo, D’Alessio, Ricciardi e Finizio, o alla ripresa melodica di Sal Da Vinci e Sannino, sino ai rapper come Clementino e Rocco Hunt.

La musica, come costume vuole, racconta il folklore e i sentimenti vividi di un popolo, ciò che colpisce la vita di tutti i giorni, quello che ci arriva come un pugno allo stomaco e ci piega in due. 

L’amore non è più quello del ‘300 ma nemmeno quello di 20 anni fa, così i nuovi interpreti utilizzano  tecniche digitali come i vocoder, i treble, etc, per raccontare la nuova espressione amorosa, più smart e digitale, dove l’elettrico è soppiantato dal liquid street, trap e trash.

Oggi i giovani ascoltano Vetri Neri (Anna Pepe, Capo Plaza e Ava), Cookies n’cream (Sfera e Basta e Anna Pepe), Auto Blu (Shiva) per fare qualche esempio.

Ciò che è importante sottolineare è che però queste canzoni rappresentano quello che Durkheim avrebbe definito “fatto sociale”, ovvero quei rapporti giovanili fatti di dolore, di ferite e di violenza; come Geolier (all’anagrafe Emanuele Palumbo), che a febbraio sarà di scena all’Ariston di Sanremo che nella canzone Everyday (feat Anna e Shiva) dice:

 

“…È na guerra ogni vota che tu hê ‘a scennere ‘a coppa, E nun s’è maje risolto niente, Stajebevenno e nunstajeassaporanno niente, Dint’ô bicchiere putessestá ‘o vveleno, Tu sîll’aria ca scompare comme me dint’ô riflesso, Menumale ca so’ bravo a vivere in apnea, Sî capace ‘e m’affugá pure c”a bassa marea, Voglio a te, sulo a te, sempe a te, pure si”

 

Le gang prendono il posto dell’amicizia, l’odio dell’amore, la volgarità della delicatezza, non perché questi artisti siano trash o trapper a prescindere, ma perché la nostra società è cambiata e la sua narrazione avviene attraverso le note dure dei suoi menestrelli, come nella peggiore tradizione d’oltre oceano (guerra di pallottole tra rapper in America, tra la fine del 900 e i primi anni 2000).

L’evoluzione della canzone napoletana passa da qui nella dinamica del racconto, del suo verismo, della sua ribalta sociale, della sua narrazione che non è cattiva o perversa, ma specchio di una città che ha perso il velo del mito, di Partenope, per trasformarsi in qualcosa di nuovo, che bisogna studiare e migliorare, perché poi non si dica: “vedi Napoli e poi trap…”.

Gabriele Esposito