Tanta carne a cuocere ma poca sostanza
Da poco più di un anno in Italia i riflettori del dibattito pubblico sono puntati su una nuova tecnologia, la carne coltivata. Il tono della discussione, però, come spesso avviene nel nostro Paese, è tutt’altro che pacato.
Un po’ di cronistoria forse non guasta per capire di che cosa stiamo parlando.
Nel novembre 2022 Coldiretti lancia una petizione per contrastare l’introduzione sul mercato dei cosiddetti prodotti cell-based, seguita pochi mesi dopo da un ddl del Ministro dell’Agricoltura e della Sovranità alimentare Francesco Lollobrigida, convertito in legge il primo dicembre 2023, che fa dell’Italia il primo e al momento unico Paese al mondo ad aver vietato la produzione e vendita di carne coltivata.
Intanto l’Europa è alla finestra e ci osserva.
Infatti, prima della conversione in legge, trattandosi di disciplinare un settore suscettibile di influenzare il mercato comune e la libera circolazione delle merci, il Governo Meloni avrebbe dovuto notificare alla Commissione europea il contenuto del ddl, affinché fosse sottoposto a valutazione. Si tratta della cosiddetta procedura TRIS. Questo passaggio non c’è stato e ora la legge rischia di essere de facto inapplicabile.
Al netto degli aspetti amministrativi e delle procedure da attivare, ci sono tuttavia altre questioni sul tappeto da esaminare. Questioni di sostanza.
Infatti, le paure che accompagnano l’introduzione del nuovo prodotto non vanno derise ma ascoltate per poter trovare strategie di comunicazione efficaci.
In effetti, tra gli argomenti circolati nel dibattito pubblico contro la carne coltivata ce ne sono almeno tre che meritano attenzione: 1) la perdita di posti di lavoro; 2) l’impoverimento delle culture gastronomiche e la minaccia ai valori del mondo rurale, incarnati dai piccoli allevatori con la loro capacità di custodire e difendere i territori; 3) l’introduzione sul mercato di un prodotto artificiale, da scoraggiare in quanto tale.
In effetti, ci troviamo di fronte a una transizione che può generare un effetto profondo su un settore occupazionale importante.
Perciò è indispensabile che gli allevatori siano coinvolti direttamente nelle nuove filiere produttive, ad esempio attraverso percorsi di rimansionamento.
Non è pensabile che siano loro a subire gli effetti collaterali della transizione.
Per quanto riguarda l’impoverimento delle culture gastronomiche, direi che la preoccupazione sia eccessiva, per diverse ragioni.
Innanzitutto, la carne coltivata, almeno nelle prime fasi dopo l’immissione sul mercato non avrà un effetto sostitutivo rispetto alla carne convenzionale.
In secondo luogo, inoltre, il nuovo prodotto non è concepito, almeno non in prima battuta, per contrastare i piccoli allevatori o le piccole aziende zootecniche, ma l’agricoltura animale industriale nella forma degli allevamenti intensivi.
Ciò significa che potrebbe essere vista con maggiore favore da parte dei piccoli allevatori che, in alcuni casi, esprimono con i loro prodotti la tipicità del local e che, per le tecniche da loro utilizzate, rappresentano potenziali alleati dei territori.
Infine, l’euristica della natura, per cui un prodotto è buono se e solo se è naturale, ci mette di fronte al paradosso di dichiarare naturale la carne convenzionale, che naturale non è essendo il risultato di complesse procedure industriali, e di rigettare una possibile tecnologia che ha il potenziale di restituire agli animali non umani uno scenario di azione più coerente con il loro repertorio comportamentale.
In definitiva, va superata la logica del veto aprioristico e della demonizzazione se si vuol evitare che il nostro paese rimanga al palo rispetto ad importanti innovazioni nel settore food tech.
Luca Lo Sapio