Pa’ Drammaturgia di Marco Tullio Giordana e Luigi Lo Cascio

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                 fonte foto:teatrodinapoli.it

                                                                               Pa’

 

Drammaturgia di Marco Tullio Giordana e Luigi Lo Cascio

 

Recensione di Alessia Santini 

 

C’è la bella discrezione di chi conosce a fondo quel che tratta, nel racconto che fa di Pasolini, Marco Tullio Giordana. 

Si potrebbe scambiarlo per uno spettacolo sofisticato, che cammina in punta di piedi, senza voler necessariamente spalancare nuove porte.

Forse complici anche le essenziali e raffinate scenografie, a opera di Giovanni Carlucci. 

 

In ordine: a sipario chiuso, in proscenio, la scrivania alla quale un giovane Pasolini in camicia bianca siede. 

Prima dedica è quella al cinematografo e alle sue persistenze erotiche nell’immaginario ancor fanciullo. Condotto nella magia della sala, che tanto lo segnerà, da madre e padre e instradato verso le sue prime fascinazioni sessuali dalla vaga réclame di un uomo divorato da una tigre.

Più avanti, già cresciuto, Pasolini tornerà a quello stesso tavolo per scrivere parole di più aspra natura: è al fratello Guido, morto in battaglia da partigiano, che rivolge il suo sentito commiato: 

‘’Caro Guido, ora che so che tu sei morto mi pare di conoscerti veramente, e so cosa vuol dire il nome fratello (…)

Scappa – ti hanno detto- non tornare lassù. Ti potevi salvare, ma tu sei tornato lassù, camminando.’’ 

 

Con un tocco magico della mano la scena poi s’apre, e qui ritroviamo il prato sacro d’infanzia, di Casarsa, un declivio di nostalgie grate, puntellate dalla veggenza vispa delle lucciole:  

‘’O me giovinetto! Nasco nell’odore che la pioggia sospira dai prati di erba viva (…) In quello specchio Casarsa- come i tempi di rugiada- trema di tempo antico. Là sotto io vivo di pietà, lontano fanciullo peccatore, in un riso sconsolato.

Guardo il mio corpo di quand’ero fanciullo, le triste domeniche, il vivere perduto. Sarò il Narciso fiore che si specchia’’

 

S’arriva poi Roma, alla casa davanti al penitenziario, cantuccio materno d’amore irresolubile, che ripara dalla polvere affamata di una capitale mistica seppur miserabile: 

‘’Ero al centro del mondo, in quel mondo di borgate tristi, beduine, di gialle praterie sfregate da un vento sempre senza pace. (…) Era il centro del mondo, com’era al centro del mondo il mio amore per esso’’.

 

Piove dal cielo poi il tappeto di cartacce e documenti sui quali sono state scritte possibili colpe e compiute ricerche, mucchio preso a calci da un ragazzetto di vita diviso nel dissidio giovane tra il possibile sé e la consolidata realtà.  

‘’Egli chiede pietà, con quel suo modesto, tremendo sguardo, non per il suo destino, ma per il nostro…Ed è lui il troppo onesto, il troppo puro, che deve andare a capo chino?’’

 

Sulla fine il quadro di rifiuti che si compone via via alle spalle di Pierpaolo appartiene allo sterro dell’idroscalo. 

In quei resti Pasolini continua a cercare la sua poesia, a trovarvi le sue profezie.  

 

‘’Per essere poeti bisogna avere molto tempo: ore e ore di solitudine sono il solo modo perché si formi qualcosa, che è forza, abbandono, vizio, libertà,  per dare stile al caos. Io tempo ormai ne ho poco: per colpa della morte che viene avanti al tramonto della gioventù. Ma per colpa anche di questo nostro mondo umano, che ai poveri toglie il pane, ai poeti la pace’’ 

 

Al rallentatore, come ultima condanna, scende dalla graticcia la radiografia dell’auto che ha interrotto i suoi giorni e, per altrettanti altri, la nostra lettura della realtà. 

 

Il veicolo resta sospeso come un sudario steso tra lui e noi. 

’In un debole lezzo di macello, vedo l’immagine del mio corpo: seminudo, ignorato, quasi morto. E’ così che mi volevo crocifisso, con una vampa di tenero orrore, da bambino, già automa del mio amore’. 

 

Un’ultima parola sospesa, ancora aperta, portata sull’aria. Poi buio. 

Luigi Lo Cascio prende i sentiti applausi vestito di un paio di jeans e una maglietta a righe. 

Come a suggerirci che così sarà sempre. Fino alla fine, il giovane contestatore. 

A guardar bene Pa’, sostenuto da un magnetico Luigi Lo Cascio, sempre dedito al significato più succoso e laterale della parola, all’uso più malioso del gesto, e alla partecipazione di Sebastien Halnaut, presenza e evocazione di tutte le assenze, è uno spettacolo appassionato, una lettera aperta in proscenio e mai chiusa, che cuce con sentimento e analisi il viaggio solitario e partecipato del Poeta. 

 

Nell’operazione drammaturgica ad opera degli stessi Giordana e Lo Cascio quel che sembra mancare è la possibilità di un incontro scontro con la materia e col corpo più diretto, meno evocato. 

 

Ma, in ultima analisi, questa sembra essere più una scelta rispettosa di quell’alterità del Poeta dedita a indagare e a cercare una chiave alla contraddizione intrinseca – prima di sé e poi di tutto il resto- che invece un’ambizione disattesa.

 

Si segnala la presenza, quando in scena, di Sebastien Halnaut, fratello e ragazzo di vita, che dà corpo al desiderio dei fantasmi, e con un tiro di pallone abbrevia il complesso Pier Paolo Pasolini nel vocativo Pa’. 

 ‘’A Pa’, vié a tira du’ carci!’’ gli sentiamo dire, e in quell’esortazione soddisfatta troviamo l’unica stabilità del senso: la passione di giocarsela. 

 

Coinvolgenti e giuste le musiche di Andrea Rocca, come deliziosi i costumi di Francesca Livia Sartori. 

 

Ancora in scena a Roma, Ambra Jovinelli fino al 10 marzo; 

Cesena, Alessandro Bonci dal 14 al 17 marzo; 

Genova, Gustavo Modena dal 20 al 22.