Quiet quitting: la ribellione al modello americano

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Quiet quitting: la ribellione al modello americano

di Roberta Baiano

 

“La fabbrica fu concepita alla misura dell’uomo perché questi trovasse nel suo ordinato posto di lavoro uno strumento di riscatto e non un congegno di sofferenza”, queste sono state le parole di Adriano Olivetti, imprenditore rivoluzionario e innovativo che della sua azienda aveva saputo fare una comunità, diventando uno dei “grandi”.

Con comunicazione, cura, sviluppo, studi e applicazione di sociologia e psicologia lavorativa ha saputo rendere la sua impresa di famiglia tale in tutti i sensi; l’opposto, se si vuole, di ciò che incontriamo oggi.

Ho usato l’esempio e le parole di Olivetti, infatti, per parlare di un fenomeno non nuovo, ma sempre più diffuso, specialmente nel post Covid: il quiet quitting, o abbandono silenzioso.

L’espressione nasce sui social, più precisamente quando viene coniato l’omonimo hashtag e sta a indicare una riduzione in termini quantitativi e qualitativi dell’impegno del lavoratore nello svolgere i propri compiti. 

Si fa, cioè, pur restando rispettosi degli orari e delle mansioni previste dal contratto e non lasciando il lavoro, il meno possibile. Non ci si impegna in attività extra, non si lavora oltre l’orario stabilito, non si partecipa a riunioni se non obbligatorie.

I comportamenti non sono direttamente controproduttivi nei confronti dell’azienda, del datore di lavoro e degli altri colleghi; ma aumentano l’assenteismo, i permessi retribuiti e per malattia, le lamentele, e calano il coinvolgimento nella vita aziendale, la qualità del lavoro e la produttività. Una sorta di ribellione al mito americano della dedizione totale al lavoro.

Ora che abbiamo visto la malattia e i sintomi, cerchiamo di capirne l’origine.

Come nel caso positivo dell’esperienza alla Olivetti, anche in questo caso negativo la risposta risiede proprio nel comportamento del leader; che spesso, purtroppo, non comprende e non comunica efficacemente.

Non comprende che il lavoratore non è al pari delle macchine o dei mezzi che l’azienda possiede, ma è una persona. E come tale è esposta agli stress che derivano dagli input dell’ambiente esterno.

Se vi è una comunicazione verticale e prettamente negativa, il lavoratore non si sente preso in considerazione e quindi si sente poco motivato a partecipare e collaborare. Una costante mancanza di riconoscimento e una quasi totale assenza di prospettiva di carriera, lo demotivano ulteriormente. Uno squilibrio tra vita privata e lavorativa, lo frustra.

Se tutto ciò, poi, avviene in modo prolungato ed eccessivo, alla fine è molto probabile che il lavoratore vada incontro alla Sindrome di Burnout e, dunque, a una condizione di esaurimento psico-fisico ed emotivo il cui effetto domino è assicurato.

Essì.

Perché l’entusiasmo non si ha certamente per ciò che si fa, ma per come lo si fa e quando i dipendenti non sono nelle condizioni di dare il proprio meglio, è l’azienda che perde occasioni cruciali di crescita e un guadagna un danneggiamento della reputazione.

È l’azienda che ci perde anche in termini economici dal momento che un ambiente tossico, in cui si lavora male, porta a un aumento del turn over e della richiesta di personale aggiuntivo per raggiungere gli obiettivi minimi.

Trovata la causa, trovata la cura.

Come si dice? Moglie felice, vita felice!

Investire nel benessere dei propri dipendenti, significa investire nell’azienda. 

Carichi di lavoro perlopiù prevedibili e costanti, riduzione dei ritmi lavorativi eccessivi giornalieri, usare in modo regolare ferie e pause, offrire le opzioni degli orari flessibili e dello smart working e un uso moderato degli straordinari sono solo alcune delle soluzioni.

Costruire rapporti soddisfacenti con il proprio personale, comunicare efficacemente, ascoltare esigenze e preoccupazioni, tenere in conto le differenze generazionali e prevedere un sistema premiante ben più strutturato sono altri passi fondamentali.

In sintesi, una gestione più attenta e l’applicazione di una vera cultura aziendale non tossica contribuiscono a vedere la persona prima del dipendente e a prevenire il fenomeno del quiet quitting.