La piccola Liu
1958-1961. Il Grande Balzo in Avanti
– Riprenditela – sibilò il signor Liu, spingendomi all’interno del tugurio che una volta era stata la nostra casa.
– Non è possibile – rispose mio padre.
La piccola Liu era sul pavimento. Morta. Mia madre le aveva praticato un piccolo taglio alla base del collo e tenendole il capo leggermente rialzato raccoglieva il sangue che ne fuoriusciva in una bacinella di ferro smaltato.
Glielo avevo visto fare altre volte, quando possedevamo delle galline, quando eravamo contadini ricchi e potevamo permetterci di sgozzarne una per le feste. Glielo avevo visto fare con le galline, ma questa era la prima volta che vedevo mia madre sgozzare una bambina.
Ci avrei fatto l’abitudine. A tutto ci si abitua.
“Riprenditi tua figlia. Noi non…”
E il signor Liu se ne andò.
Mi accovacciai in un angolo, sicura che quando il ticchettio delle gocce contro il ferro della bacinella fosse cessato, sarebbe toccato a me.
A casa dei Liu la nonna aveva preparato tutto. Laccio. Coltello. Bacinella e sale. Poi aveva detto a suo figlio di riportarmi indietro.
Ero terrorizzata all’idea che quel rumore arrivasse fino al capo villaggio. Fissavo la porta convinta che fosse sul punto di aprirsi per lasciarlo entrare. Poi il rumore cessò. Mia madre infilò il coltello sotto gli stracci che ricoprivano il corpicino della piccola Liu, li tagliò e la nonna prese a cucirli, poi il coltello affondò nella poca carne che ricopriva le ossa. Tante piccole strisce, come le code colorate che spuntavano dai dragoni di seta il primo giorno dell’anno. Danzavano e si attorcigliavano diffondendo allegria e buona sorte. Un ricordo lontano di quando non sapevo ancora camminare e mio padre mi portava sulle spalle. Poi mia madre le coprì di sale e divennero bianche e il ricordo svanì. Il bianco è il colore dei funerali non delle feste.
Successe ancora. Uno, due, tre volte. Forse di più. Io andavo e poi tornavo, ogni volta convinta che sarebbe stata l’ultima, che qualcuno avrebbe mangiato anche me. I contadini si scambiavano i figli, convinti che mangiare carne estranea sarebbe stato meno doloroso, ma non era così per tutti e io fui fortunata perché venni restituita più volte.
Ad altri andò meno bene. Nessuno dei bambini con cui ero cresciuta, una volta entrato nella mia casa, ne venne fuori vivo.
Quando arrivò l’esercito con i sacchi di riso erano tutti morti di fame. Anche il capo villaggio che fino all’ultimo giorno aveva continuato a inviare messaggi entusiasti sullo stato della produzione agricola e sulla felicità di tutti noi. Eravamo gli ultimi nella lista dei soccorsi, all’inizio delle festività per il nuovo anno aveva scritto: ”Prepariamo grande banchetto”.
I miei erano sopravvissuti. Persino la nonna. E avevano ancora qualche striscia sotto sale. Fui io che li mandai a morte. Presi per mano uno di quei soldati e lo condussi a casa.
Aprii la conserva e gliele mostrai.
Io e la piccola Liu ci tenevamo per mano come facevamo quando lei era ancora viva e fu assieme che assistemmo alla loro esecuzione.
Li trascinarono dinanzi alla cucina comune. Loro imprecavano. Le mani legate dietro la schiena. Ginocchioni. I soldati puntarono le pistole dietro le loro nuche e la nonna maledisse il compagno Mao per diecimila anni. Il botto spappolò i loro cervelli e un pasticcio simile a ciò che avevamo mangiato per mesi, si riversò tutt’intorno. Fu allora che la piccola Liu mi disse di fuggire e io lo feci. Corsi per un po’ e lei correva con me, poi caddi. Un tremendo bruciore mi attraversò il petto e tutto divenne buio. Per un po’.
Morire, in fin dei conti, non è così doloroso.
I soldati se ne andarono. Quella notte i cani, sopravvissuti alla carestia mangiando i cadaveri che la gente non aveva avuto la forza di seppellire, ebbero un ultimo pasto. Poi tornarono i soldati e uccisero anche loro.
Sono passati trent’anni da quel giorno e nessuno è più venuto nel nostro villaggio. Il tempo e le intemperie ne hanno mutato l’aspetto. Monconi di case. Campi abbandonati. Un residuo di fornace per la fusione di quell’acciaio da cortile che non era servito a nulla. La gente non vuole venire da queste parti, dicono che due spettri famelici, due bambine affamate, si aggirano tra le mura rosicchiate dai venti. Saltano sulle tombe. Lanciano grida di soccorso, per attirare i vivi in imboscate demoniache e banchettare con le loro carni.
Non è vero.
Io e la piccola Liu non ci siamo mai mosse di qui e non le abbiamo mai incontrate.
Fatima Curzio