Il cinema intimo di Una notte a New York

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FONTEFOTO:movieplay.it

Il cinema intimo di Una notte a New York

 

di Dionigi Zizza

 

Il cinema è un viaggio, e talvolta questo viaggio si svolge tra i sedili di un taxi.

Nella storia del grande schermo, alcuni film hanno saputo catturare l’atmosfera delle strade con specchietti, luci, semafori, vigili urbani e un pizzico di traffico. Pensiamo a “Taxi Driver” di Scorsese (1976) o a “Il Tassinaro” di Sordi (1983) per opere più riflessive, oppure a “Collateral” (2004) di Michael Mann, ideale per chi ama l’avventura. 

 

Del 2024 è invece “Una Notte a New York” (Daddio in lingua originale) diretto da Christy Hall, con Dakota Johnson e Sean Penn come protagonisti.

Il cast è praticamente limitato a loro due, in uno stato di grazia, con qualche comparsa a fare da contorno. Il film è essenziale: solo dialoghi e un viaggio in taxi.

 

Daddio è una rarità nel panorama moderno, in cui il pubblico è spesso attratto da trame fitte, continui ritorni narrativi e risposte facili, tipiche dei cinematic universe dei cinecomics. 

Questo film, invece, conserva la qualità più autentica del cinema: l’“effimera estemporaneità”. Dura poco, ma lascia un segno nello spettatore, che, se lo ama, lo rivede fingendo di essere alla prima visione. Le inquadrature sono curate, e i campi e controcampi si prendono il loro tempo.

 

La storia inizia con la nostra protagonista (Dakota Johnson) che, uscita dall’aeroporto pensierosa, prende un taxi guidato da Sean Penn.

Il tassista non compare subito, ma è introdotto da dettagli: il riflesso di uno specchietto, dita che tamburellano sul volante – spesso accompagnate da musiche che richiamano alla tribalità, qualche foto di famiglia vicino al retrovisore. 

Sul cruscotto, il tassametro, avviato con calma dal guidatore in una scena che lascia prendere allo spettatore un certo senso di quotidianità, quasi di déjà-vù. 

Insomma, il ritmo lento delle prime inquadrature accoglie lo spettatore nel taxi, immergendolo nella storia.

 

La fotografia gioca un ruolo fondamentale: le immagini non sono perfettamente pulite, ma ricche di riflessi e luci cittadine, evocando i toni caldi del “giallo taxi” e richiamando, a tratti, l’estetica di Taxi Driver

 

Anche la colonna sonora, composta da Dickon Hinchliffe, spazia tra richiami all’OST di The Truman Show di Philip Glass e ritmi tribali dal sapore folkloristico, che aggiungono profondità emotiva alle scene.

 

I due protagonisti, separati dal vetro tra i sedili anteriori e posteriori, iniziano a parlare. Clark, il tassista, trova simpatica la sua passeggera senza nome. La definisce “non plugged in” – non connessa – sottolineando un distacco dall’umanità sempre più dipendente dalla tecnologia. Il dialogo parte con luoghi comuni: “I soldi ormai non sono più contanti”, “Non ci si parla più faccia a faccia”, ma si evolve rapidamente. La ragazza, apparentemente distante, usa il telefono per interagire con un fidanzato oppressivo e dedito al sexting

 

Clark ripete spesso: “Sei umana”. 

I dialoghi toccano temi profondi: bugie amorose, solitudine, gravidanza, mescolando ironia e introspezione. La scrittura è brillante, alternando momenti surreali, drammatici e comici. Lo spettatore si ritrova immerso nei segreti che i protagonisti si confidano, attratto da un racconto che si sviluppa come un thriller psicologico.

Il film affronta, con una sottile ironia, tematiche esistenziali di stampo kierkegaardiano ed hegeliano. Ad esempio, si domanda: l’uomo promette ancora di liberarsi dal lavoro con la tecnologia, o è la tecnologia a liberarsi dell’uomo?

 

Una scena di traffico, lunga ma ben costruita, diventa un’occasione per approfondire il dialogo tra i due. I protagonisti, bloccati, si aprono sempre più, rivelando fragilità e riflessioni universali.

 

Verso il finale, un incidente stradale spezza il ritmo del viaggio. Le inquadrature, crude e dettagliate, mostrano una macchina capovolta e bruciata, suggerendo l’allegoria dell’uomo-macchina, nato e morto in essa. 

Il film evita le solite forzature narrative per accontentare il pubblico, preferendo collegamenti allegorici e introspezioni rare nel cinema contemporaneo.

 

Come nelle commedie di Plauto, i protagonisti apprendono molto durante il viaggio, ma alla fine tornano alla loro normalità. 

La corsa cieca e solitaria dell’uomo moderno prevale, almeno inizialmente, anche di fronte a incontri illuminanti come quello con Clark. Ed è proprio questa ambiguità che rende il film profondo e umano, rivedibile e indimenticabile.

 

Voto 8,5