Autonomia differenziata: dopo la Corte, tocca di nuovo alla politica

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Autonomia differenziata: dopo la Corte, tocca di nuovo alla politica 

di Giuseppe Lauri

 

23 gennaio 2024 – 20 gennaio 2025: in appena un anno, il tanto contestato disegno di legge sull’autonomia differenziata ha avuto il tempo di diventare testo definitivo, di essere portato due volte davanti alla Corte costituzionale con due esiti tendenzialmente differenti, almeno dal punto di vista politico; e, da ultimo, di schivare il referendum.

 

Come si è già avuto modo di scrivere su queste pagine, l’attuazione dell’art. 116, c. 3 della Costituzione ha rappresentato, fin dall’insediamento del governo Meloni, il cavallo di battaglia delle revisioni costituzionali insieme a Premierato – di cui però sembrano un po’ tutti essersi dimenticati, con buona pace di Fratelli d’Italia, che evidentemente non ha saputo fare bene i conti in termini di do ut des con la Lega.

 

In un Paese dove quando accade un evento topico sembrano tutti vincere e nessuno perdere – leggere alla voce “Elezioni Europee 2024” – forse è proprio la Lega, ministro Calderoli in primis, l’unica a potere festeggiare, quantomeno con moderazione. 

Fino a prova contraria, a differenza del premierato – che, almeno stando alle ultime dichiarazioni disponibili, dovrebbe essere sottoposto all’ennesimo referendum confermativo dal sapore plebiscitario – l’autonomia differenziata è legge dello Stato. 

Ad oggi, le Regioni interessate – Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna – potrebbero tranquillamente, o quasi, avviare la procedura parlamentare di ratifica delle intese con lo Stato centrale. 

 

Ma torniamo alle date: la proposta Calderoli è stata approvata dal Senato il 23 gennaio 2024 e dalla Camera il successivo 19 giugno. 

Trattandosi di un disegno di legge ordinaria non ha avuto bisogno di fare più di un passaggio per ogni aula, segno di una certa compattezza della maggioranza che in sei mesi non ha ritenuto di doverlo emendare e che è riuscita a dribblare, di fatto, ogni tentativo proveniente dalle opposizioni in tal senso, senza dover ricorrere neanche al voto di fiducia. 

 

Il 24 giugno viene promulgato il testo, il 6 luglio viene proposto il referendum popolare totalmente abrogativo su iniziativa di diverse realtà sociali che in tempi record, anche grazie alla nuova piattaforma ministeriale che consente la sottoscrizione elettronica, raggiunge il quorum minimo. 

 

Il 27 agosto Campania, Puglia, Sardegna e Toscana impugnano la legge davanti alla Corte costituzionale in via diretta (e cioè ritenendo che violasse alcune loro prerogative).  

 

Il 27 settembre vengono depositate in Cassazione altre due proposte di referendum di abrogazione – totale la prima, parziale la seconda – promosse dai consigli regionali di Campania, Emilia-Romagna, Puglia, Sardegna e Toscana. 

 

Il 12 novembre la Corte costituzionale si esprime sul ricorso in via diretta. La sentenza viene pubblicata il 3 dicembre. 

 

Il 12 dicembre, un mese esatto dopo, la Corte di cassazione dichiara ammissibili i referendum abrogativi totali e non ammissibile il quesito di abrogazione parziale, ritenendo che il testo della legge che sarebbe risultato dall’esito positivo di quest’ultima consultazione sarebbe venuto a coincidere con quello ridefinito dalla sentenza della Corte costituzionale pubblicata il 3 dicembre. 

 

E arriviamo così al 20 gennaio, pochi giorni fa, quando il giudizio della Corte costituzionale salva quattro proposte di referendum su cittadinanza e lavoro, ma non anche quella di abrogazione totale dell’autonomia differenziata. 

 

La Corte, come ormai da prassi consolidata, lo fa sapere con un comunicato stampa che riassume – in estrema sintesi – la sentenza in corso di pubblicazione. 

L’assenza del testo effettivo della pronuncia impone, almeno per ora, di citare le poche indicazioni-flash contenute nel comunicato: «La Corte ha rilevato che l’oggetto e la finalità del quesito non risultano chiari. Ciò pregiudica la possibilità di una scelta consapevole da parte dell’elettore. Il referendum verrebbe ad avere una portata che ne altera la funzione, risolvendosi in una scelta sull’autonomia differenziata come tale, e in definitiva sull’art. 116, terzo comma, della Costituzione; il che non può essere oggetto di referendum abrogativo, ma solo eventualmente di una revisione costituzionale». 

Detto altrimenti, se l’autonomia differenziata non piace, va rimossa dal Parlamento riscrivendo la Costituzione. Nel momento in cui l’art. 116, c. 3 Cost. esiste, è giusto che vi sia una legge che lo attui.

 

La sentenza della Corte costituzionale del 12 novembre – 3 dicembre 2024 sull’impugnativa diretta della legge nazionale rappresenta un caso molto interessante. 

Intanto, perché è vistosamente lunga (il sito della Corte genera un pdf di ben 109 pagine; solo per rendere idea, la sentenza sul cosiddetto “caso Cappato” in materia di fine-vita era di appena 22 pagine). 

Anche in questo caso, sembra che il provvedimento sia stato accolto con favore sia dai paladini dell’autonomia differenziata, che dai suoi principali avversari. 

Questa dicotomia si riflette anche nelle analisi degli esperti, che, a modestissimo avviso di chi scrive, sono ancora premature. 

Due mesi sono oggettivamente troppo pochi metabolizzare con criterio un atto che è sicuramente entrato nel merito di numerosi aspetti della differenziazione

 

Sono ben cinquantadue i punti della legge attualmente vigente su cui la Corte si è espressa, dichiarando incostituzionali quattordici di essi. 

Da un punto di vista quantitativo, la Lega e la maggioranza di governo possono cantare vittoria; nei fatti, però, resta la riscrittura della legge Calderoli approvata dalle Camere. 

L’intervento della Corte ha agito su questioni non irrilevanti: la negoziazione del riparto effettivo delle funzioni tra Stato e Regioni interessate; il procedimento negoziale stesso; il rispetto, tra gli altri, del principio costituzionale di sussidiarietà, che deve essere presente sin dalla decisione della singola Regione di avviare il procedimento di differenziazione; la delega in bianco al Governo sulla determinazione e l’aggiornamento dei livelli essenziali delle prestazioni da garantire su tutto il territorio nazionale, che resta il nodo principale insieme a quello – su cui pure è caduta la mannaia della Consulta – della partecipazione delle Regioni ad autonomia rafforzata agli obiettivi di finanza pubblica, e dunque del come gestire i tributi locali, di quanto gettito fiscale trattenere sui territori e di quanto devolvere allo Stato centrale; sulla possibilità di ammettere una differenziazione rafforzata anche per le Regioni a Statuto speciale che, come noto, già godono, rispetto a quelle a Statuto ordinario, di una maggiore autonomia funzionale e competenziale (pur tra tanti paradossi). 

 

D’altro canto, i fautori dell’autonomia differenziata possono rivendicare il fatto che la legge resta in piedi (e il perché lo ha spiegato la Corte costituzionale nel ritenere non ammissibile il referendum abrogativo); tuttavia, al di là dei proclami e del giubilo, restano ancora numerosi nodi da sciogliere, per giunta senza un monito al Parlamento a intervenire – e non sarebbe potuta andare diversamente: qui, a differenza di altri ambiti (si pensi di nuovo al fine-vita), una legge, seppur perfettibile, esiste. La storia è sempre maestra. 

Dal 2018 le intese sulla cui base dovrebbe svolgersi la differenziazione sono rimaste allo stato di bozza perché i tre governi succedutisi nella scorsa legislatura (e la pandemia) hanno avuto tre diversi approcci alla concreta attuazione dell’art. 116, c. 3 Cost. 

In conclusione, ancora una volta, saranno il tempo e le effettive dinamiche politiche a chiarire – in un futuro forse neanche prossimo – il contorno (se non il destino!) effettivo dell’autonomia differenziata.