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“Sanpa – luci e tenebre di San Patrignano”: la docuserie netflix che accende il dibattito pubblico

Scritto da Vitaliano Corbi Il . Inserito in Cinema & TV

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Il 30 dicembre 2020 è uscita sulla piattaforma di streaming Netflix la docu-serie “SanPa - Luci e Tenebre di San Patrignano”, diretta da Cosima Spender. In poco tempo gli animi di tutti: giornalisti, opinionisti, personalità influenti, si sono infervorati e continuano a infervorarsi come forse mai avevano fatto prima per un prodotto cinematografico-documentaristico targato Netflix.

Ma prima di entrare nel vivo di questo scabroso dibattitto pubblico che si è generato, proviamo a comprendere cos’è “SanPa”.

“SanPa” racconta la storia della comunità di recupero per tossicodipendenti di San Patrignano che fu fondata nel 1978 da Vincenzo Muccioli. Si tratta di un nome ben stampato nella mente di chi ha vissuto gli anni Ottanta e che, probabilmente, diceva poco a noi giovani prima della produzione Neflix. Vincenzo Muccioli è, inoltre, un nome che avrebbe potuto essere, tranquillamente, il nome della docuserie e forse sarebbe stato anche più azzeccato, per quello che è il contenuto. In ogni caso, SanPa ripercorre quindici anni di eventi in cinque episodi, i cui titoli sono: Nascita, Crescita, Fama, Declino e Caduta. Tenete bene a mente queste fasi, perché tra poco, ci serviranno per provare a elaborare un ragionamento.

San Patrignano ancora esiste, ma è proprio negli anni Ottanta e nei primi anni Novanta che la comunità inizia a crescere, di numero e di importanza, così come crescono le ombre sui metodi “curativi” pensati da Vincenzo Muccioli e poi fatti applicare. Uno di quelli che colpisce molto è l’incatenamento in spazi sporchi e angusti di quei tossicodipendenti considerati più gravi e meno gestibili.

Ci sarebbero tantissimi elementi da analizzare. Oggi, ancor più che allora, siamo sommersi da interrogativi di ogni genere: la detenzione forzata è un metodo applicabile? Le catene sono sempre sbagliate? La volontà degli individui non può essere a tal punto mortificata. Ma i tossicodipendenti, in questo caso particolare, gli eroinomani, non hanno già perso gran parte della loro volontà? Muccioli è stato un grande benefattore o un sadico narcisista?

Per alcune di queste domande la risposta non è poi così netta, e certamente spetta agli esperti: alla psicologia, alla psichiatria. Ma una cosa è certa: per ogni tipo di riflessione possibile, storicizzare la mente è quanto mai necessario per non cedere alle approssimazioni. Le strategie attuali di cura e il trattamento della tossicodipendenza, oggi, non possono essere presi a modello per giudicare l’operato di San Patrignano e di Muccioli in quegli anni così spinosi, in cui il tossicodipendente era un drogato che spesso commetteva crimini, che si aggirava come uno zombie per le strade delle città. Il drogato, soprattutto per lo Stato, era, quindi, nient’altro che un problema. E in quanto problema andava eliminato, o per lo meno sotterrato. San Patrignano per le istituzioni politiche oscillava tra l’essere il luogo giusto per sbarazzarsi di questo problema, ma anche il capro espiatorio perfetto, verso cui sguinzagliare, più tardi, la magistratura.

Ma usciamo dalla polemica, guardandoci bene dal fare gli avvocati post mortem di Vincenzo Muccioli; quindi isoliamo e prendiamo in esame una questione specifica, per evitare di farci schiacciare dall’immensità del caso “SanPa”, mettendo a fuoco il prodotto documentaristico. All’uscita della serie, l’opinione pubblica si è divisa in due su un unico elemento: la fedeltà dell’opera di Netflix alla realtà. Ma ricordate i titoli dei 5 episodi? Già da questi potremmo intuire che “SanPa” non si schiera, ma che sta raccontando una vita. La vita della comunità, con le sue qualità e con i suoi errori, a volte tragici, com’è proprio tipico di una vita umana.

Quindi si propone una lettura diversa del tema, e lo si fa attingendo dalla storia e della teoria del cinema documentaristico, sperando possa essere illuminante. Ricordiamoci che in assoluto, un documentario, proprio come un film, non è e non può essere la fotocopiatrice della realtà. Il documentario è un linguaggio. La macchina da presa non aspira la realtà e la ridà agli spettatori. Il documentario è sempre soggettivo, è sempre una selezione di immagini, in base alle scelte del regista e di chi lavora con lui e in base al suo bagaglio culturale, a ciò che intende approfondire. Poiché il documentario è selezione, di conseguenza, è anche esclusione. E allora il criterio per giudicarlo, più che sul realismo, dovrebbe basarsi sulla sua capacità di suscitare interrogativi, di far riflettere, di svelare qualcosa. “SanPa” sembrerebbe che questa capacità abbia, straordinariamente, dimostrato di averla.