Lo spazio e la pandemia
Se ci pensiamo, non esistono fenomeni sociali che non abbiano luogo in precisi spazi.
Noi tutti, possiamo definirci come corpi fisici sempre ben localizzati. Ed è proprio questo principio di fisicità che la pandemia globale di covid-19 ha svelato con forza, mettendoci in luce, senza mezzi termini, quella nostra parte di natura, puramente materiale.
Il problema del distanziamento, per esempio, è un problema che ha messo in gioco nient’altro che una categoria spaziale, così come l’esigenza di una certa tracciabilità, del virus, certo, ma, dunque, di noi stessi.
Sembra che la dimensione spaziale sia ritornata, in maniera più luminosa, ad avere una notevole rilevanza con il lockdown. Il lockdown è stato differente, per le persone, in base allo spazio in cui si trovavano.
Ma lo spazio può intendersi anche come costruzione sociale. In questo caso, siamo noi a costruire lo spazio, e non è quest’ultimo ad assolvere la funzione di mero contenitore. In pratica, la pandemia ha offerto un interessante contrapposizione concettuale tra le due idee di spazio che, storicamente, si sono alternate e soppiantate nei secoli: lo spazio come vuoto, come contenitore appunto, e lo spazio come ciò che intercorre tra gli individui, cioè la distanza che intercorre tra di noi.
Si fa, quindi, vividissima la funzione dello spazio come strumento epistemologico, perché ogni spazio è, comunque, spazio pensato. Ancor di più, sembrerebbe che non esista una realtà ontologica che forma e fonda lo spazio nella nostra società; bensì che siano, soprattutto, le pratiche di narrazione e di simbolizzazione a creare lo spazio.
Ed è attraverso questo processo continuo di costruzione spaziale che si determinano i principi di inclusione e di esclusione sociale.
Rimanere vigili e studiare tale processo può essere utile per la decostruzione di alcune narrazioni esclusive, ricordandoci che la visione spaziale delle società non è mai univoca.