Funziona finché non crolla

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Funziona finché non crolla

Di Roberta Baiano 

 

Produttivi, impeccabili, performanti. 

La puntualità come religione, l’efficienza come identità. 

Il problema è che funziona. 

 

L’ansia ad alto funzionamento è il disturbo ideale per società che premiano lo stakanovismo e diagnosticano solo il cedimento visibile. 

Chi si alza all’alba, consegna in anticipo, risponde alle mail alle 22 e si concede pure un hobby — non può stare male. 

O almeno, non ha tempo per dirlo.

 

Il tratto distintivo è l’apparente solidità: persone brillanti, capaci, presenti, che girano sempre alla massima potenza. 

Ma l’ansia, sottotraccia, lavora ai fianchi. 

Invisibile, ma operativa. 

 

Un sistema nervoso acceso ventiquattr’ore, la mente congestionata da scenari ipotetici, la costante sensazione che qualcosa stia per sfuggire. 

Tutto sotto controllo, tranne chi quel tutto lo controlla.

 

Non è solo uno stato d’ansia: è uno stile cognitivo che si autoalimenta. 

 

Inizia con buone intenzioni — obiettivi, pianificazione, dedizione — e finisce per diventare una forma mascherata di autolesionismo ad alto rendimento. 

I tratti si ripetono: perfezionismo, intolleranza al fallimento, incapacità di delegare, senso di colpa per ogni pausa. 

A guardarli da fuori sembrano motivati. 

A guardarli bene, sono esausti.

 

Il problema non è il carico di lavoro, ma il fatto che anche a carico zero il cervello continua a girare. In modalità anticipazione, previsione, prevenzione. 

Le vacanze sono “una perdita di tempo”, il riposo una forma di sabotaggio. 

L’attività non è una scelta, è una strategia di contenimento.

 

Nel frattempo, il corpo registra. 

Disturbi del sonno, tachicardia, irritabilità, uso sistemico di sostanze: caffè per carburare, alcol per spegnersi, ansiolitici per restare in piedi. 

L’iperproduttività diventa un anestetico per evitare di fare i conti con l’ansia stessa. 

Funzionare è l’unico modo accettabile di ammalarsi.

 

Ma non basta l’iperattività. 

C’è anche il rumore di fondo della paura di non essere all’altezza

Uno stato d’apprensione che sopravvive al successo, all’esperienza, persino all’assenza di critiche. 

Come se l’insufficienza fosse una condizione strutturale. 

 

Il pensiero creativo si irrigidisce, la concentrazione si accorcia, la gestione si trasforma in rincorsa.

 

Il rischio burnout non è una possibilità remota: è una progressione logica. 

Perché chi si abitua a ignorare i segnali — stanchezza cronica, tensione muscolare, ostilità crescente verso qualunque intoppo — prima o poi collassa.

O peggio: continua a funzionare mentre si consuma.

 

Non è forza. 

È silenziosa autodistruzione.

Ma finché il sistema premia chi resiste e punisce chi rallenta, questa distruzione resta legalizzata. Spinta, anzi, incentivata. 

Si spaccia per ambizione, si traveste da leadership, si confonde con la dedizione.

 

Non servono pause. 

Serve smettere di trasformare l’autosfruttamento in virtù.

Dal miraggio al portafoglio: la vera partita dei premi di produzione

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Dal miraggio al portafoglio: la vera partita dei premi di produzione

di Roberta Baiano

 

Sulla carta è tutto semplice: raggiungi gli obiettivi, incassi il premio. 

Nella realtà, però, i premi di produzione rischiano spesso di diventare la versione aziendale dell’araba fenice: tutti ne parlano, pochi li vedono davvero.

 

A differenza di altri bonus che spuntano come pioggia improvvisa e immotivata, qui si promette meritocrazia: obiettivi misurabili, criteri trasparenti, valutazioni oggettive. 

In teoria. 

Perché in pratica, tra target che cambiano ogni anno, performance valutate con metriche opache e tempistiche a piacere, il confine tra incentivo e frustrazione è sottile.

 

Gli obiettivi possono riguardare chiunque – dal singolo al team, fino all’intero reparto – e spaziare da produttività ed efficienza alla qualità. 

Il problema è quando restano vaghi o inarrivabili. 

 

Senza un confronto serio con chi quegli obiettivi dovrebbe raggiungerli, il premio si trasforma in una promessa astratta, buona solo per motivare a parole.

 

Intanto l’azienda si prende il lusso di scegliere quanto, quando e come erogare: mensile, trimestrale, annuale, in busta paga o convertito in welfare (se previsto). 

Il tutto condito da buoni propositi: “gratificare i dipendenti”, “aumentare la produttività”, “allineare gli obiettivi individuali con quelli aziendali”.

 

Peccato che la vera sfida non sia definire scadenze e KPI, ma rendere questi strumenti credibili. 

Il lavoratore può anche mettercela tutta, ma se alla fine del percorso trova nebbia invece che premio, l’effetto boomerang è assicurato: perdita di fiducia, cinismo, disimpegno.

 

Ecco perché la vera partita dei premi di produzione si gioca sulla trasparenza

 

O si fa il salto di qualità – e si coinvolgono i dipendenti nella definizione dei criteri – oppure tanto vale smettere di chiamarli “premi” e iniziare a chiamarli per quello che sono: specchietti per le allodole.

 

Morte di Alhagie Konte: “Entrato sano, uscito in fin di vita”.Il dramma del 27enne gambiano morto nel carcere di Poggioreale

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La morte di Alhagie Konte, 27 anni, originario del Gambia, riaccende i riflettori sulle condizioni sanitarie e umane nelle carceri italiane. Il giovane è deceduto pochi giorni fa all’ospedale Cotugno di Napoli, specializzato in malattie infettive, a causa di una tubercolosi in stato avanzato continua la lettura….

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