Il principio di offensività nel diritto penale: fondamenti storici e teorici
Il principio di offensività nel diritto penale: fondamenti storici e teorici
di Luca Orlando continua la lettura….
Il principio di offensività nel diritto penale: fondamenti storici e teorici
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Infobesità: Il Fast Food dell’informazione che ci sta uccidendo
di Roberta Baiano
Viviamo in un mondo dove l’informazione non è più un bene raro – il che è un bene – ma una valanga inarrestabile che ci travolge ogni secondo – il che è un male.
Scrolliamo, leggiamo, ascoltiamo, guardiamo, ma alla fine della giornata cosa ci resta davvero?
Il problema non è solo la quantità, ma la qualità.
Siamo talmente immersi in un flusso continuo di dati che distinguere il necessario dal superfluo diventa un’impresa.
Ed ecco che arriva il paradosso: più informazioni abbiamo, meno sappiamo cosa farne.
E allora benvenuti nell’era dell’infobesità!
L’era dove il troppo sapere ci rende incapaci di decidere, di agire, persino di pensare con lucidità.
Un tempo questo problema riguardava soprattutto gli uffici, con caselle e-mail intasate e notifiche incessanti, ma oggi il sovraccarico informativo è letteralmente ovunque.
Ogni dispositivo è un portale aperto su un universo di stimoli che ci raggiungono senza sosta, anche quando non li cerchiamo.
Social, e-mail, news, notifiche, messaggi vocali e testuali: tutto concorre a una dieta informativa eccessiva e spesso tossica, che intossica la mente come il cibo spazzatura fa con il nostro corpo.
Il risultato?
Ansia, stress, incapacità di filtrare ciò che conta davvero e una crescente paura di restare scollegati, come se il mondo potesse dimenticarsi di noi in un attimo.
Eppure, il cervello umano non è stato assolutamente progettato per funzionare così.
Il nostro sistema cognitivo non è un hard disk infinito pronto ad archiviare ogni dato, ma una macchina raffinata che lavora per priorità.
Quando queste priorità vengono sommerse da una marea di input inutili, la capacità di attenzione si riduce, la memoria vacilla e il pensiero critico evapora.
Peggio ancora, l’eccesso di informazioni ci rende paradossalmente più vulnerabili.
Infatti, leggiamo di tutto, crediamo a tutto, e alla fine ci affidiamo a ciò che appare più semplice, più rapido, più istantaneo.
La soluzione? Non è spegnere tutto e ritirarsi in una caverna – anche se l’idea può risultare allettante.
Può essere, invece, riscoprire il valore della selezione e della pausa.
La data usability ci viene in soccorso e ci offre un’ancora di salvezza.
Non tutti i dati sono uguali, ed esistono criteri chiari per distinguere quelli realmente utili: rilevanza, qualità, accessibilità, facilità di analisi.
Sono questi i pilastri per costruire un rapporto sano con le informazioni, invece di affogarci dentro.
E a livello individuale?
Alcune soluzioni possono essere, per esempio, il togliere le notifiche, il limitare il multitasking digitale, il separare il tempo online da quello offline, il concedersi giorni di digital detox.
Abbiamo scambiato la connessione continua con la conoscenza, ma essere sempre aggiornati non significa essere più informati.
L’infobesità ci sta rubando il tempo e la lucidità.
E forse è giunta proprio l’ora di metterci a dieta.
Una cosa divertente che non farò mai più – Il paradosso della scelta
di Roberta Baiano
Ci sono esperienze che, una volta vissute, ci lasciano con la certezza di non volerle ripetere.
È il caso raccontato in Una cosa divertente che non farò mai più di David Foster Wallace, un libro nato da un reportage commissionato dalla rivista Harper’s su una crociera extralusso ai Caraibi, che dopo numerose revisioni si è trasformato in un classico dell’umorismo e una satira tagliente sul divertimento di massa.
La traduzione italiana non è delle più fedeli: il titolo originale, A Supposedly Fun Thing I’ll Never Do Again, rendeva ancora meglio il senso del libro, che è tutt’altro che semplice; a conferma di ciò, il cuore pulsante dell’opera si trova nelle note, che occupano ben 137 delle 151 pagine.
Il nostro narratore e compagno di viaggio è Wallace, semi-agorafobico, catapultato in un microcosmo di vizi, sorrisi, camicie hawaiane e lusso sfrenato.
Fin dalle prime pagine emerge un senso di tristezza e disperazione: se la vacanza è intesa come una pausa dalle difficoltà della vita, allora la crociera e chi ce la propone andrebbero definitivamente banditi dai nostri pensieri.
Da un lato, Wallace apprezza piccoli dettagli come la stanza sempre impeccabile e il mistero delle cameriere-fantasma; dall’altro, analizza la perfetta macchina del divertimento che governa la nave, evitando di farsi risucchiare nella massa di passeggeri.
Essere serviti e riveriti senza dover pensare o scegliere sembra il sogno di molti, ma quando ti ritrovi intrappolato in mezzo al mare con un’agenda del tempo libero imposta dall’alto, inizi a comprendere il senso della frase di Aristotele secondo cui la natura ha paura del vuoto e lo riempie costantemente.
Un passaggio del libro, che ho personalmente sottolineato, esprime bene questo concetto:
“Ogni giorno sono costretto a compiere una serie di scelte su cosa è bene o importante o divertente, e poi devo convivere con l’esclusione di tutte le altre possibilità che quelle scelte mi precludono. E comincio a capire che verrà un momento in cui le mie scelte si restringeranno e quindi le reclusioni si moltiplicheranno in maniera esponenziale finché arriverò a un qualche punto di qualche ramo di tutta la sontuosa complessità ramificata della vita in cui mi ritroverò rinchiuso e quasi incollato su di un unico sentiero e il tempo mi lancerà a tutta velocità attraverso vari stadi di immobilismo e atrofia e decadenza finché non sprofonderò per tre volte, tante battaglie per niente, trascinato dal tempo. È terribile. Ma dal momento che saranno proprio le mie scelte a immobilizzarmi, sembra inevitabile, se voglio diventare maturo, fare delle scelte, avere rimpianti per le scelte non fatte e cercare di convivere con esse.”
Se per diventare maturi bisogna scegliere, la crociera si fonda sull’idea opposta: liberare il passeggero da ogni responsabilità e distrarlo da una realtà difficile.
Wallace descrive i suoi compagni di viaggio come “caproni allo zoo”, bambini viziati che, seguendo la propaganda della nave, si trasformano in folla.
E questa cede agli istinti che individui singoli avrebbero frenato, regredisce intellettualmente e si lascia sedurre dall’illusione.
Buffet infiniti, teli sempre nuovi, sorrisi forzati del personale, scacchi, freccette, gare di bianchi bianchissimi tra le navi da crociera: tutto è finalizzato a creare una realtà parallela in cui non si avverte il peso della responsabilità.
Wallace sembra salvarsi dalla trasformazione grazie alle sue ossessioni, alla sua semi-agorafobia e alla sua tendenza a rintanarsi nella cabina o a vagare alla ricerca delle cameriere-fantasma.
Ma alla fine del libro si insinua un dubbio, un’atmosfera a metà tra il finale di Inception e quello di 1984: sarà davvero riuscito a mantenere il distacco?
In questo libro emerge forte il tema del paradosso della scelta: se da un lato la libertà di decidere è fonte di ansia e frustrazione, dall’altro la sua assenza non porta alla serenità sperata, ma a un senso di vuoto ancora più grande.
E allora, si è davvero più felici quando si è privati della possibilità di scegliere?
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