La legittima difesa (13). Common law vs civil law: due modi di pensare la legittima difesa
La legittima difesa (13). Common law vs civil law: due modi di pensare la legittima difesa
di Luca Orlando continua la lettura….

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di Luca Orlando
di Luca Orlando
“Ho salvato la mia vita, ma non so se lo rifarei”. continua la lettura….

di Luca Orlando
Difendersi è un diritto, dice la legge.
Ma una volta che ci si è difesi da un pericolo imminente, bisogna anche difendersi dal processo.
È una contraddizione solo apparente, perché in Italia — e non solo — ogni reazione violenta, anche quella nata per proteggere la propria vita, viene comunque sottoposta al vaglio della magistratura.
Una verifica necessaria, certo.
Ma che può trasformarsi in un calvario umano e giudiziario per chi, già segnato da un’esperienza traumatica, si ritrova anche sotto accusa.
Chi ha reagito a un’aggressione non è automaticamente colpevole, naturalmente, ma nemmeno automaticamente innocente.
È il giudice che dovrà stabilire se la sua azione è stata legittima, proporzionata, inevitabile. Ed è in quel momento che il processo si sposta dal fatto all’intenzione: “Voleva difendersi o voleva punire?”, “Era davvero in pericolo o ha colto la scusa per colpire?”, “Avrebbe potuto fare diversamente?”.
A queste domande, nessuna legge può rispondere da sola.
E così il giudizio diventa anche interpretazione di un’emozione, di un istante, di un impulso.
Il caso emblematico è quello in cui il pericolo non è più attuale.
Se l’aggressore sta scappando, se non è armato, se non ha ancora agito, si entra in un’area grigia in cui la valutazione si fa delicata.
Perché la legittima difesa non è concessa “a prescindere”, ma solo se si dimostra che il pericolo era reale, immediato, ineludibile. Un requisito tanto razionale sulla carta quanto difficile da rispettare nella realtà.
Molti di coloro che hanno reagito — colpendo, ferendo, a volte uccidendo — raccontano dopo di non aver avuto il tempo di pensare.
Di aver agito per istinto, sotto shock.
Eppure, in tribunale, si chiede loro di ricostruire ogni gesto, ogni parola, ogni dettaglio.
Il processo diventa così un secondo trauma: rivivere il momento, giustificarlo, sostenerne la necessità.
Non si tratta solo di una questione di norme, ma anche di linguaggio.
Spesso si sente dire che “chi si difende finisce per passare guai peggiori dell’aggressore”. Un’esagerazione? In parte sì, ma non del tutto infondata.
Le spese legali, la lentezza dei procedimenti, l’esposizione mediatica, l’ansia per una possibile condanna: tutto questo pesa.
Eppure, fermare i processi in automatico — come qualcuno propone — sarebbe altrettanto pericoloso.
Significherebbe accettare che qualsiasi gesto violento compiuto in nome della difesa sia sempre legittimo.
Un lasciapassare che rischia di giustificare reazioni vendicative, e che contraddice la natura di uno Stato di diritto.
La giustizia, per essere tale, deve valutare. E per valutare, deve indagare.
La soluzione non sta nell’abolire i processi, ma nel gestirli con attenzione e umanità. Riconoscere che chi ha subito un’aggressione è già, di per sé, una vittima.
Offrirgli tutela legale, tempi rapidi, strumenti psicologici adeguati.
Rispettare la sua paura, ma senza rinunciare al dovere di distinguere tra difesa e punizione.
Burnout: La miccia e la scintilla
di Roberta Baiano
Il burnout non arriva all’improvviso.
È una combustione lenta, che comincia quando lo sforzo quotidiano non trova più un ritorno.
La frustrazione – quel muro invisibile tra ciò che si vuole e ciò che si ottiene – diventa l’innesco.
Herbert Freudenberger, nel 1974, ha dato un nome a questo stato di esaurimento professionale: burnout.
Una sindrome che oggi l’OMS definisce come conseguenza dello stress cronico sul lavoro, non gestito con successo.
In altre parole, è ciò che resta quando la persona si svuota. L’energia cala, la motivazione evapora, il cinismo cresce come unica forma di difesa. Il corpo e la mente si ribellano, ma in silenzio.
I sintomi si confondono con la vita stessa: stanchezza costante, insonnia, irritabilità, dolori diffusi, perdita di interesse per tutto ciò che non sia sopravvivenza.
Si diventa spettatori del proprio lavoro, incapaci di reagire.
Le donne spesso sentono prima la frattura, perché vivono un maggior coinvolgimento emotivo.
Gli uomini la negano più a lungo, finché crollano di colpo.
Il burnout non è solo la somma di stress e fatica.
È il punto in cui la motivazione cede il passo alla rassegnazione, e il lavoro smette di essere identità per diventare minaccia.
È una spirale che si avvita lentamente, dove l’individuo continua a correre anche quando non sa più perché.
La miccia è accesa da tempo, ma la scintilla arriva solo quando si è già bruciato quasi tutto.

di Luca Orlando
Difendersi è un diritto, dice la legge.
Ma una volta che ci si è difesi da un pericolo imminente, bisogna anche difendersi dal processo.
È una contraddizione solo apparente, perché in Italia — e non solo — ogni reazione violenta, anche quella nata per proteggere la propria vita, viene comunque sottoposta al vaglio della magistratura.
Una verifica necessaria, certo.
Ma che può trasformarsi in un calvario umano e giudiziario per chi, già segnato da un’esperienza traumatica, si ritrova anche sotto accusa.
Chi ha reagito a un’aggressione non è automaticamente colpevole, naturalmente, ma nemmeno automaticamente innocente.
È il giudice che dovrà stabilire se la sua azione è stata legittima, proporzionata, inevitabile. Ed è in quel momento che il processo si sposta dal fatto all’intenzione: “Voleva difendersi o voleva punire?”, “Era davvero in pericolo o ha colto la scusa per colpire?”, “Avrebbe potuto fare diversamente?”.
A queste domande, nessuna legge può rispondere da sola.
E così il giudizio diventa anche interpretazione di un’emozione, di un istante, di un impulso.
Il caso emblematico è quello in cui il pericolo non è più attuale.
Se l’aggressore sta scappando, se non è armato, se non ha ancora agito, si entra in un’area grigia in cui la valutazione si fa delicata.
Perché la legittima difesa non è concessa “a prescindere”, ma solo se si dimostra che il pericolo era reale, immediato, ineludibile. Un requisito tanto razionale sulla carta quanto difficile da rispettare nella realtà.
Molti di coloro che hanno reagito — colpendo, ferendo, a volte uccidendo — raccontano dopo di non aver avuto il tempo di pensare.
Di aver agito per istinto, sotto shock.
Eppure, in tribunale, si chiede loro di ricostruire ogni gesto, ogni parola, ogni dettaglio.
Il processo diventa così un secondo trauma: rivivere il momento, giustificarlo, sostenerne la necessità.
Non si tratta solo di una questione di norme, ma anche di linguaggio.
Spesso si sente dire che “chi si difende finisce per passare guai peggiori dell’aggressore”. Un’esagerazione? In parte sì, ma non del tutto infondata.
Le spese legali, la lentezza dei procedimenti, l’esposizione mediatica, l’ansia per una possibile condanna: tutto questo pesa.
Eppure, fermare i processi in automatico — come qualcuno propone — sarebbe altrettanto pericoloso.
Significherebbe accettare che qualsiasi gesto violento compiuto in nome della difesa sia sempre legittimo.
Un lasciapassare che rischia di giustificare reazioni vendicative, e che contraddice la natura di uno Stato di diritto.
La giustizia, per essere tale, deve valutare. E per valutare, deve indagare.
La soluzione non sta nell’abolire i processi, ma nel gestirli con attenzione e umanità. Riconoscere che chi ha subito un’aggressione è già, di per sé, una vittima.
Offrirgli tutela legale, tempi rapidi, strumenti psicologici adeguati.
Rispettare la sua paura, ma senza rinunciare al dovere di distinguere tra difesa e punizione.

Di Roberta Baiano
Ci sono tutta una serie di motivi per cui noi millennials siamo come siamo.
E uno di questi motivi è MSN Messenger.
Sì, avete capito bene.
Quel programmino azzurro con gli omini stilizzati che oggi pare una reliquia preistorica e che invece ha contribuito in modo decisivo alla nostra educazione sentimentale, digitale e ansiogena.
MSN non era solo una chat.
Era il luogo dove scoprivi che sì, anche tua sorella maggiore di dieci anni più grande era in realtà un essere umano.
Forse è stato il primo momento in cui io e lei ci siamo davvero rivolte la parola.
Una tredicenne e una ventitreenne che trovavano finalmente un punto di contatto: l’arte di digitare frasi tragiche accanto al proprio nickname e lanciare trilli come se non ci fosse un domani.
Per chi non c’era, spieghiamolo bene: MSN Messenger era una piattaforma di messaggistica istantanea lanciata nel luglio del 1999, che ha vissuto la sua apoteosi nei primi anni 2000, quando è diventato Windows Live Messenger.
Acquisito da Microsoft e poi fuso con Skype nel 2013, ha raccolto oltre 330 milioni di utenti al mese, prima di essere smontato pezzo per pezzo come una bancarella abusiva.
Ma nel frattempo aveva già fatto i suoi danni.
Se la scritta “sta scrivendo” su WhatsApp oggi vi genera ansia, pensate a noi.
Vent’anni fa quella scritta c’era già.
E restava lì.
Per minuti.
Lunghi, snervanti minuti.
Fissavi lo schermo come si fissa un forno aspettando che si scaldi.
Poi: niente. Spariva. Il contatto andava offline. Il messaggio non arrivava mai.
Fantasmi digitali che ancora oggi ci fanno controllare compulsivamente la doppia spunta blu. Non è paranoia, è PTSD da Messenger.
C’è un motivo se oggi accendiamo il PC alle due di notte per rispondere a una mail del lavoro con l’urgenza di chi sta disinnescando una bomba.
È che su MSN, se non rispondevi in 30 secondi, ti beccavi dieci trilli uno dietro l’altro, illeggibili, assordanti, invasivi, devastanti.
Nessuna app moderna è riuscita a replicare quel livello di terrorismo acustico.
E nessuna funzione ha mai più avuto la stessa capacità di distruggere il tuo monitor, il tuo equilibrio emotivo e la tua dignità in una sola vibrazione epilettica.
Quel trillo, comunque, te lo meritavi anche solo per aver impiegato troppo tempo a scrivere.
Il che ha generato, oggi, un’intera generazione che vive in funzione di “sta scrivendo…”.
Così, quando lo vediamo comparire, calcoliamo i secondi.
Se sparisce senza motivo, immaginiamo già l’arrivo di un messaggio di sei schermate. Oppure, più spesso, un nulla che ci costa 48 ore di overthinking.
E se vi turbano gli hater, i commenti cattivi sotto i post o nelle dirette, allora è proprio vero che non avete mai conosciuto Doretta.
Un’intelligenza artificiale ante litteram, una specie di bisnonna di Siri o Alexa, che si limitava a rispondere con qualche frase standard, mentre quei poveri quattordicenni distrutti dalla vita, laprendevano di mira scrivendole le peggiori cattiverie immaginabili.
Nessuna IA è mai stata trattata peggio.
E lei niente, zitta, incassava.
Una vera martire digitale.
Spero che ChatGPT sappia cosa sua nonna ha dovuto passare.
Ancora: voi, nuove generazioni, con i vostri post minimal, le vostre grafiche pulite, i profili ordinati color crema, si vede che non avete mai avuto la possibilità di esprimervi sullo “space” di MSN.
Luoghi psichedelici, blog emozionali in cui regnava l’estetica emo-glitterata.
Nero, fucsia, azzurro elettrico, immagini animate, scritte glitter e pupazzetti con gli occhi grandi che piangevano sangue.
Insomma, Messenger non era solo un’app.
Era la nostra vita online, quando la vita online era ancora una cosa da fare di nascosto, dopo i compiti, prima che i genitori dicessero basta.
Era la zona franca tra la scuola e il letto.
E ci siamo passati tutti: a mandare link, a scambiarci i compiti, a flirtare male, a soffrire peggio.
Tutto rigorosamente gratis, quando ogni SMS di massimo 50 caratteri costava al mese quasi quanto un monolocale a Roma.
Poi è arrivato Facebook, WhatsApp, l’algoritmo, l’iperconnessione e tutto è cambiato.
MSN è stato lentamente inglobato, sostituito, dimenticato.
O quasi.
Perché, ve lo garantisco, chi l’ha vissuto non l’ha mai davvero lasciato andare.
Questo articolo l’ho scritto per noi millennials.
Per ricordarci chi siamo.
Per darci la forza di affrontare il futuro anche in momenti di disperazione.
Perché, se abbiamo superato le umiliazioni su MSN, i trilli, le sparizioni, le scritte “sta scrivendo” infinite, Doretta e l’estetica emo-glitterata, allora sì che possiamo superare tutto.
Anche la prossima mail di lavoro su Outlook alle 1:54 di domenica.